Erre tre è un opera per una compagnia di burattini e un burattinaio.
È mio desiderio raccontare attraverso questo primo atto cartaceo perché ho scelto di mettere in scena un opera per burattini.
Il burattino ha come dote fondamentale quella d’essere un oggetto magico in grado di suscitare, in chi lo guarda, e in chi lo usa (e al fin ne è usato) atmosfere inaspettate. Ad esempio, ho potuto verificare ed esperire in questi anni quanto il burattino fornisca chiavi di lettura sorprendenti proprio nel lavoro tecnico ed espressivo di un attore: dall’ evocare suoni ancestrali al richiamare posture remote, il burattino apre l’attore ad un nuovo mondo ed a un nuovo modo del corpo, perchè il burattino è un oggetto che da l’opportunità all’attore di vedere, all’esterno di sé, quel che giace all’interno di sé. L’attore può trovare nel burattino migliore rifugio e miglior luogo d’esistenza di quelli che può offrirgli la maschera. Mentre con questa una volta coperta la faccia resta il corpo a parlare, con il burattino, dell’attore appare solo la mano talvolta nascosta dalla veste/corpo. L’ingombrante attore scompare, scompare la fatica di fingere d’essere qualcosa d’altro, l’attore si dissolve, e diviene demiurgo di sé stesso: il suo corpo sintetizzato in una mano, il suo volto stilizzato in una maschera dall’espressione inflessibile, il suo spirito compresso ed espresso da un oggetto. Il personaggio purificato dal proprio corpo, libero nell’ esistere e insieme libero d’essere profondamente umano, ora che risiede in un nuovo corpo che è solo oggetto. Non più presenza ingombrante, ma sintesi totemica: una testa in legno, una mano a far da anima e una voce che crea dinamica.
Abbraccio e sostengo la tesi di chi ritiene che Il burattino sia stato il primo strumento d’azione teatrale dell’uomo, ai tempi in cui il teatro ancora non s’era fatto luce. A quell’epoca l’uomo cominciò a usare un simulacro, piuttosto che sé stesso in prima persona, per “ritualizzare” ciò che sostava bruciando tra coscienza e incoscienza: l’ineffabile, la paura del buio, del buio della morte, dei misteri della vita. E giù fino all’orrore più profondo: la propria incompletezza, umana incompiutezza, condizione così grottesca e brutta, da suggerirgli il rimedio della risata grassa e violenta. In quei tempi si ebbe la nascita della farsa. Poi l’uomo scoprì che l’orrore esorcizzato attraverso l’arte può divenire buffo o addirittura, talvolta, bello.
Il burattino nasce in questo spazio ed è rappresentazione del grottesco, al contrario della “borghese” marionetta, che tenta di compiacere l’essere umano imitandolo nella sua inconsapevole miseria. Il burattino, con il suo bel faccione da imbecille, ci deride mostrandoci con impudenza le nostre ridicole fattezze, la marionetta ci adula dicendoci che le nostre flatulenze profumano. E mentre la vezzosa marionetta è mossa dall’alto dei cieli collegata a fili invisibili, il burattino è mosso dal basso, è mosso dalle pulsioni.
Nella sua funzione di totem, il burattino acquista simbolicamente poteri magici, diviene insieme strumento e metafora. Un totem, uno spirito protettore primigenio, drammaticamente uomo, apre una porta d’accesso a una dimora sacrale, proprio attraverso la dissacrazione dell’uomo.
È necessario ritrovare le archetipiche tracce del burattino e ripulirlo da schemi e pregiudizi che oggi lo relegano a fenomeno da baraccone e riportarlo nelle sacre aule del teatro.
È urgente ricordare al mondo che il burattino non è - esclusivamente - per bambini, ma è – anche - per bambini, in quanto frequentatori privilegiati del magico.
È imperioso urlare che il repertorio del burattino è quello epico-tragico. Le fiabette analgesiche non hanno nulla a che fare con il burattino, che nasce dalla terra e trae vita dal ventre colmo di pulsioni, e dunque abita il dolore, è dramma che si fa corpo di legno.
Il burattino non è un idiota, forse uno stronzo, ma un idiota mai.
E sì lasciatemelo dire: il burattino è tragico.